tailor-made contemporary wallcoverings


Alessandro Gottardo (aka Shout)

...
Alessandro Gottardo (aka Shout)

Illustratore

Alessandro Gottardo, conosciuto anche con lo pseudonimo di Shout, vive e lavora a Milano. Tra le sue collaborazioni più importanti, The New York Times, The Wall Street Journal, TIME, Penguin Books, Volkswagen, Barclays, ENI, Nokia, United Airlines. Ha ricevuto diversi riconoscimenti internazionali; tra il 2006 e il 2007 pubblica con la casa editrice 27_9 i volumi "Jetlag" e "Jetlag 2", nel 2010 "Mono Shout", una monografia sui primi 10 anni di attività e nel 2011 "DAZED". Attraverso un'operazione di sottrazione, di sintesi dell'immagine, Shout rende le sue illustrazioni piccole opere concettuali in cui più che mostrare, costruisce messaggi immediatamente percepibili.


mostra lavori

info &
stories

“realizzai che avrei potuto comunque raccontare le mie storie tramite i disegni: per quelli sì, talento ne avevo a sufficienza!.”

In una collezione ricchissima di narrativa come quella Wall&Decò, i tuoi disegni sono fra i più narrativi di tutti, vere e proprie storie. Lo scrittore americano Sherman Alexie diceva di un suo personaggio: “La malattia di raccontare storie l’aveva presa quando era ancora nella pancia di sua madre”. Per te cosa è la narrativa e quale differenza c’è, nella tua mente, fra un’illustrazione editoriale e una per la carta da parati

 

Da adolescente, ma non solo, la narrazione mi ha salvato. Mi riferisco alla letteratura soprattutto.

Ero il tipico adolescente insicuro, afflitto dall’acne giovanile, cosa che vivevo molto peggio di quanto non fosse in realtà. Così mi rifugiai nei libri. 

Pensavo: non può essere tutto solo forma, non posso essere condizionato dal mio aspetto. Il primo libro che lessi con questo stato d’animo fu Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde: non penso vi sia un romanzo migliore per un 15enne che affronta una crisi adolescenziale legata al proprio aspetto fisico. 

In seguito sono diventato un lettore onnivoro: sono stati molto importanti Kundera, da Immortalità in poi, e Goethe, Schnitzler e molti, molti altri.  

A 20 anni mi iscrissi ai corsi di scrittura creativa alla Holden di Torino. Facevo avanti e indietro da Milano due volte la settimana, tornavo che era quasi mezzanotte. Ricordo il freddo delle giornate di febbraio, la fame perché saltavo i pasti, e la stanchezza dei continui viaggi, ma fu un periodo meraviglioso.

Capii che scrivere era un lavoro complesso per la quale non avevo abbastanza talento, ma realizzai che avrei potuto comunque raccontare le mie storie tramite i disegni: per quelli sì, talento ne avevo a sufficienza! (ride). Fu così che diventai illustratore. Per rispondere alla tua domanda, per me non esiste alcuna differenza tra un’immagine editoriale o decorativa, l’importante è che sia una storia interessante. 

 

 

L’ironia, sottile e affilata, è un’altra presenza quasi costante nelle tue carte. Come vedi il ruolo dell’ironia nel mondo del design di oggi? In passato ci sono stati grandi designer che erano maestri anche d’ironia (Achille Castiglioni su tutti), oggi forse il design pensa ad essere solo cool? Qual è la tua impressione a riguardo?

 

Amo moltissimo il design. L’epoca fra gli anni ‘40 e ‘60 in particolare. Di Castiglioni possiedo le lampade Arco e Parentesi, la fruttiera AC04, di Vico Magistretti l’Atollo e le Eclisse, di Hans Wegner il divano CH163 e così via, numerosi pezzi. 

Mi considero una sorta di purista: i miei pezzi preferiti di Castiglioni sono tra i suoi meno ironici; certo il portafrutta è chiaramente ispirato a uno scolapasta, ma è sottile, difficile notarlo di primo acchito. Per cui – parlo sempre a livello personale - se l’ironia è troppo ridondante (per quanto riguarda Castiglioni penso allo sgabello Mezzadro o alla famosa Sella) mi stufa e mi distrae da quello che deve essere la cosa più importante: l’usabilità. Per cui la comodità quando si parla di seduta, luminosità quando si parla di lampada e così via. 

Al tempo stesso l’idea di cool nel design non è ciò che mi colpisce. Mi colpisce l’eleganza unita alla funzionalità e possibilmente all’essenzialità estetica. Il cool molto spesso è legato a qualche nome di grido, avere quel pezzo fa cool a prescindere. Io rivendico il diritto di scegliere, il pezzo può averlo fatto un designer famoso o sconosciuto, non ha importanza: l’importanza è che abbia un senso a casa tua. 

Sicuramente io ho una predilezione per i pezzi dei maestri, così come ho una predilezione per i pezzi evergreen del jazz, Giant Steps di Coltrane o Kind of Blue di Miles Davies. Questo per una semplice ragione: tutto ciò che rimane rilevante, che continua a comunicare a 3 o 4 generazioni di persone è qualcosa che non può stancare. 

Per cui se devo avere un “pezzo” in casa mia, vorrei essere sicuro che non mi stanchi dopo un anno. Questione anche praticità. 

Detto ciò, la carta da parati è, se vuoi, per sua natura meno durevole: ma il bello di questo oggetto di arredo (io la considero tale) è che ti cambia una stanza con una semplice parete. Essendo un oggetto per gli occhi e non per il corpo è giusto che tenga conto di aspetti diversi rispetto la funzionalità e l’ergonomia. L’ironia quindi su carta ha senza dubbio maggiore senso, e i miei design ne abbondano! 

 

 

Una stanza rivestita con una tua carta da parati. All’interno, un personaggio della Storia o della Fiction (dalla letteratura al cinema). Chi è?

 

Domanda molto difficile.

Così di pancia ti dico Buster Keaton, divertente e tragico al tempo stesso, comico ma sobrio. Un bel design in bianco e nero con le pareti di una casa di legno che si apre in quattro e lui con il martello in mano!

Ma anche un personaggio di Tarantino o di Wes Anderson, che d'altronde sono così iconici e riconoscibili visivamente che sarebbe divertente inserirli in un design. 

Di personaggi di libri ne ho letti così tanti che al momento c’è troppa folla e non ne distinguo nessuno. 



mostra lavori